Sea Watch, lecita la condotta italiana

 

Sea Watch 3, l’avvocato: «Lecita la condotta italiana. C’è l’obbligo di assistenza, non quello di aprire i porti»

di Paolo Busco

Quando un contenzioso arriva allo scontro, è una buona idea rivolgersi agli avvocati. Paolo Busco, esperto di diritto del mare e di diritti umani, è stato ed è consulente dei governi di Roma sul caso dei due marò e da quasi tre anni è consulente esterno del ministero degli Interni. In questa intervista — a titolo personale — dice di credere fermamente che nella vicenda Sea Watch la condotta dell’Italia sia stata lecita. «Il soccorso in mare è un obbligo morale, prima ancora che giuridico — dice —. Ma qui mi sembra che nessuno impedisca alle Ong di soccorrere chi rischia la vita in mare: il problema è molto più limitato e concerne il luogo in cui deve essere sbarcato chi viene legittimamente salvato».

Avvocato, si possono chiudere a priori i porti?
«Nel diritto del mare non esiste l’obbligo di aprire i porti. Nella sentenza “Nicaragua contro Usa”, la Corte internazionale di Giustizia ha stabilito che, sulla base della propria sovranità, uno Stato ha il diritto di regolamentare l’accesso ai suoi porti».

Senza eccezione?
«L’eccezione più rilevante è il caso di “distress” di una nave, cioè quando ci sia ragionevole certezza di un “grave e imminente” pericolo per l’imbarcazione: sostanzialmente il pericolo di affondamento. Ma anche in questo caso c’è l’obbligo di prestare assistenza, non di aprire il porto».

Le navi delle Ong, però, parlano di «principio del porto sicuro».
«Ci sono due convenzioni internazionali, firmate dall’Italia, che prevedono che un salvataggio finisca con lo sbarco in un porto sicuro: la Search and Rescue (Ricerca e Salvataggio) e la Safety of Life at Sea (Sicurezza della vita in mare). Ma queste non dicono quale debba essere: sono state pensate negli Anni Settanta per naufragi in mezzo al mare e non ci si immaginava che ci sarebbero stati contenziosi su dove fare sbarcare i naufraghi. Ora si vogliono invece usare le convenzioni per uno scopo diverso, per regolare il fenomeno migratorio.Queste stesse convenzioni, inoltre, prevedono che quando uno Stato non sia in condizione di accogliere, gli altri Stati cooperino per identificare una soluzione. Cosa che, per esempio, l’Olanda si rifiuta di fare».

L’Italia, dunque, può decidere di respingere le navi delle Ong?
«Quando una nave è in acque internazionali vale la giurisdizione dello Stato di cui batte bandiera, nel caso Sea Watch l’Olanda. Quando entra nelle acque territoriali italiane è nella giurisdizione italiana, e quindi è il nostro Paese che se ne deve prendere carico. Per questo la nave della Ong è stata bloccata fuori dalle acque territoriali italiane. La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo di una settimana fa ha respinto la richiesta di Sea Watch di attraccare in un porto italiano. Ma non basta, la Corte ha anche spiegato che si trattava di stabilire se la nave fosse davvero sottoposta alla giurisdizione italiana, perché c’erano obblighi dello Stato bandiera».

Dunque, per lei la condotta italiana è lecita.
«Sì, ne sono fermamente convinto. Ma la questione è piuttosto se sia lecita la condotta del resto della comunità internazionale. Le uniche obbligazioni che la Convenzione sul diritto del mare e le Convenzioni sul salvataggio in mare pongono in termini inequivoci sono le obbligazioni di cooperazione per la gestione condivisa dei salvataggi fra tutti gli Stati. È detto a chiare lettere: gli Stati devono cooperare, tutti. E su questo aspetto, mi pare che la comunità internazionale sia ampiamente inadempiente. È questo il vero dramma, che impedisce una vera e duratura soluzione al problema. Tutto a discapito dei migranti: perché ci si sofferma sulla presunta pagliuzza italiana, ma non sulla trave collettiva».

POLITICA
Romano Pisciotti condivide

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *