Non so se gli psicoanalisti applichino ancora il metodo junghiano delle parole-stimolo a cui il paziente deve associare la prima cosa che gli passa per la testa, ma ogni volta che sento la formula “populismo penale” – e grazie al cielo accade un po’ più spesso di prima – subito affiorano due ricordi, entrambi legati a Francesco Saverio Borrelli. Il primo è un piccolo ma spettacolare rovesciamento di frittata che il procuratore capo amava fare a metà degli anni Novanta in risposta alle accuse di giustizialismo. I nostri nemici non sanno neppure usare le parole, diceva pressappoco Borrelli, perché il justicialismo era l’ideologia di Perón, dunque è sinonimo di populismo, dunque il vero giustizialista (lui non faceva il nome) è Berlusconi. Il secondo ricordo, che ha tuttora il potere di guastarmi il sonno, è una frase sibillina pronunciata nei giorni trionfali di Mani Pulite: “Quando la gente ci applaude, applaude se stessa”. Quasi un calco della formula di Durkheim secondo cui la religione è la società che adora se stessa. Se ne poteva dedurre che Borrelli attribuiva al pool una funzione sacra o totemica, di canalizzazione di energie collettive: invece di Manitù, Manipù. I due ricordi avranno senz’altro un legame segreto nei meandri della mia nevrosi garantista, ma ne hanno anche uno manifesto, ed è questo: il populismo penale, l’uso improprio di strumenti giudiziari per ricercare il consenso, è tanto più infido in quanto è acefalo o policefalo. A differenza dei populismi radunati attorno a un capo, può assumere molti volti più o meno effimeri, incarnarsi secondo le occasioni in un pm giustiziere, in un politico gracchiante, in un giornale di secondini, in una vittima esemplare che chiede riparazione esemplare, o può anche mimetizzarsi nelle sembianze anonime di una moral majority. Insomma, è un mostro proteiforme politico-giudiziario – e poi dice che uno non dorme la notte.
Romano Pisciotti : da “ Il Foglio”