Romano Pisciotti: forse il brano ( già sintetizzato da me) non è di facile lettura ma è estremamente interessante e la conclusione semplice e vera.
Prima dell’età moderna, l’arte non è mai stata fine a se stessa. Come scriveva il grande pensatore tradizionalista Ananda K. Coomaraswamy: “il fine da conseguire era la perfezione, non la bellezza […] e l’artista non era un genere speciale di uomo ma ogni uomo era un genere particolare di artista”. L’arte, dunque, rappresentava un mezzo per adeguare alla visione di Dio gli scopi di utilità e di godimento del tempo. Non vi era differenza tra “belle arti” ed “arti applicate”. E l’arte, secondo San Tommaso d’Aquino, era imitazione della natura e del suo modo di operare. L’arte stessa, dunque, era impiantata nella natura e nel disvelamento della sua essenza vi era l’intima comprensione della verità. È proprio nella distruzione dell’unità tra natura e sapere che risiede quel “peccato” del pensiero occidentale che ha determinato il suo stesso suicidio: la scelta di “non essere” e la distruzione di tutto ciò che di umano c’è in noi attraverso il fraintendimento del significato e del ruolo della “tecnica” e la sua trasformazione in mito civilizzante.
Tanto il produrre opere quanto il produrre utensili sono una iniziativa dell’uomo in mezzo alla natura e sul fondamento della natura stessa.
Secondo Heidegger sono cinque i fenomeni peculiari dell’età moderna: a) la scienza come ricerca e scienza esatta; b) la tecnica meccanica; c) l’inserimento dell’arte nella mera dimensione estetica; d) l’interpretazione della cultura come fare dell’uomo; e) la de-divinizzazione. Appare subito evidente come questi fenomeni siano concatenati l’uno con l’altro e tutti intrinsecamente collocabili nel più vasto orizzonte del nichilismo. Heidegger, in L’epoca dell’immagine del mondo (altro saggio contenuto in Sentieri interrotti), pone particolare enfasi sul concetto di scienza esatta e fa notare come, a differenza della scienza moderna con la sua presunzione di verità, per i greci, la scienza non fosse affatto esatta perché non aveva in primo luogo bisogno di esserlo.
L’esattezza non era parte della sua essenza. Dunque, neanche la scienza moderna, con la sua dimostrazione empirica attraverso il calcolo matematico, potrebbe imporsi come depositaria della verità. Ciò perché la scienza non è affatto un accadere originario della verità, ma è di volta in volta la strutturazione di un ambito veritativo già aperto. “La verità scientifica – affermava il compianto Costanzo Preve – è solo una procedura concordata di accertamento di protocolli dominanti nella comunità scientifica che mutano fisiologicamente di paradigma”.
Non c’è risultato scientifico che possa mai trovare diretta applicazione in ambito filosofico. Solo andando al di là dell’esattezza, e dunque trasformandosi in filosofia, la scienza può pervenire alla verità del disvelamento dell’essente in quanto tale. L’esito inevitabile dell’assunzione della scienza come scienza esatta è il gigantismo: il mito assolutamente metafisico del potere illimitato del calcolo e del progresso senza fine della tecnica meccanica. Questa idea di tecnica (metafisica e post-metafisica allo stesso tempo in quanto riduce la metafisica alla sua stessa anti-essenza attraverso l’inveramento dell’errore di fondo del pensiero occidentale in età moderna) è caratterizzata dal suo darsi impositivo. Essa si impone all’uomo. E questo darsi impositivo è un darsi per accumulo che differisce in modo evidente dal darsi spontaneo dell’essere greco nella φύσις. Questo “darsi” era paragonabile al fiume che scorre dal cielo verso la terra e che univa l’umano al sacro attraverso l’asse nascente dal centro del Geviert: modello filosofico heideggeriano rappresentato attraverso l’intersezione di due linee (alla pari della croce di Sant’Andrea) ed indicante, nei suoi quattro poli, le dimensioni del Cielo, della Terra, degli Uomini e del Divino. Al contrario, l’essere tecnicizzato moderno è paragonabile al fiume imbrigliato dalla centrale idroelettrica che estrae forzatamente le risorse per accumularle. E l’accumulazione, così come la dismisura del gigantismo, è il fondamento della civiltà moderna.
L’uomo pensato dalla moderna civiltà della tecnica perde di vista totalmente la sua umanità in rapporto con la natura. Ed il pensiero della modernità non è più pensiero ma semplice algoritmo.
Secondo Heidegger i limiti del gigantismo posto a fondamento della nostra civiltà si esprimevano nel riconoscimento dell’impossibilità di una configurazione quantitativamente esatta del mondo. Il filosofo tedesco vide nel principio di indeterminazione di Heisenberg la prova concreta di questo fatto.
L’incertezza e l’incalcolabilità rese palesi dall’assioma del fisico tedesco rappresentavano infatti un fattore di crisi: non una svolta epocale ma una rottura dell’ordine del tempo.
Attraverso questa rottura sarebbe possibile tornare a quell’istante pre-metafisico in cui
l’uomo possa nuovamente scegliere tra la volontà di dominio sulla natura perpetrata tramite la tecnica o il rispetto della sua essenza fenomenica intrinsecamente.