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GEOPOLITICA E AZIENDE
Le chiavi di lettura puramente economico-finanziarie non sono più sufficienti a navigare la complessità internazionale. La Scuola di Limes fornisce consulenze su misura per le imprese che proiettano se stesse e il paese in un mondo sempre più competitivo.
PRESENTATO DA ROMANO PISCIOTTI
LA FOLLIA DELLA GLOBALIZZAZIONE
LUCA BASTIANELLI:
Una confettura di pere, coltivate in Argentina, confezionate in Tailandia e vendute negli Stati Uniti. Se non capite che la vera rivolta ecologica è una lotta seria e profonda alla follia della globalizzazione delle merci, non mi rompete le scatole con le auto elettriche e i piatti in cellulosa!
Romano Pisciotti, LIKE
Resistere al diabolico progetto della globalizzazione di tutti i cervelli.
Non insegnate ai vostri figli ad adattarsi alla società, ad arrangiarsi
Presentato da Romano Pisciotti
Una dimostrazione di quanto siamo dipendenti da quello che succede nel mondo
“La situazione impatterà in modo particolare su quelle aziende che avevano optato per una catena della fornitura corta e non dispongono di un ampio stock di prodotti”
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Romano Pisciotti: Ci siamo ubriacati di “just in time” di teorie sulla fabbrica “magra” e per mettere in atto queste false promesse di utili mirabolanti abbiamo messo in atto una globalizzazione selvaggia, piegata più alla fantafinanza e agli utili a breve termine, senza pensare al “sistema paese” e alla stabilità economica.
La riduzione dei costi…ci costa lacrime e sangue ogni volta che salta una rotella del diabolico ingranaggio.
Assembliamo auto con parti costruite in Cina o rimbalziamo per mezzo mondo macchinari che aggiungono quote di valore in una catena che unisce bassi costi di produzione e grandi rischi, disoccupazione nei paesi industrializzati e, spesso, bassa qualità.
Per alimentare la teoria della globalizzazione abbiamo dovuto abbattere i costi di trasporto costruendo mega navi, spesso messe in cantiere con sovvenzioni pubbliche, abbiamo modificato porti, sempre con spesa pubblica, per ricevere questi giganti del mare…tutti pagheremo per una folata di vento che ha messo in difficoltà la “EVER GREEN.”
I marittimi hanno già pagato in termini di riduzione del personale a bordo e riduzione di stipendi, per rincorrere, al ribasso, le paghe di marinai d’acqua dolce.
Abbiamo creato un sistema che premia gli azionisti e distribuisce i costi su tutti.
Abbiamo globalizzato le pandemie e i disastri tenendoci l’incubo della disoccupazione…e tante altre rogne. Il conto economico, a livello mondiale, quadra, mentre noi affondiamo in questo mare grande che non rispetta confini, leggi o il benessere sociale.
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“La corsa al gigantismo navale, che continua a caratterizzare la strategia dei grandi gruppi che controllano il trasporto di merci in container (e quindi di tutti i principali beni di consumo), e che sono impegnati da anni a ordinare navi portacontainer sempre più grandi, ha creato un circolo vizioso che sta facendo emergere una fragilità senza precedenti storici nel mercato marittimo. In 5 anni la flotta mondiale per il trasporto merci è cresciuta del 37%, con tassi annuali anche del 10%, a fronte di una recessione economica mondiale e di una flessione nel tasso di sviluppo anche della Cina, oltre che dei principali Stati che avrebbero dovuto alimentare il rilancio dell’economia globale. 10% annuo contro una crescita media del 2% nel Pil mondiale. In queste cifre sono sintetizzati interrogativi inquietanti relativi alla corsa, tutt’oggi in atto, a nuove navi sempre più grandi e alle conseguenze che questa corsa genererà anche in sistemi paese…”
(Convegno Federagenti dedicato al tema delle grandi navi)
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Il blocco del canale di Suez causato dall’incagliamento di una delle più grandi navi al mondo, la portacontainer Ever Given della compagnia Evergreen, sta generando un vero e proprio effetto valanga su tutto il commercio globale, e in particolar modo su quello europeo. E di conseguenza anche il porto di Genova, il primo porto del paese, osserva con “orrore” le notizie in arrivo dall’Egitto, dove la situazione sembra essere, paradossalmente, “in alto mare”.
“Un vero tsunami su tutta la filiera italiana – sottolinea Giampaolo Botta, direttore generale di Spediporto – la situazione potrebbe risolversi tra diversi giorni e provocherà seri problemi per la gestione delle scorte. Da Suez passano ogni settimana circa 50 mila contenitori diretti in Europa, e questo blocco sta facendo saltare tutte le schedule e le programmazioni, con attese dilatate anche di giorni“. Molte navi, infatti, stanno optando di aggirare il blocco rispolverando l’antica rotta di circumnavigazione dell’Africa “con un allungamento dei viaggi di 7-8 giorni – sottolinea Botta – cosa che con ogni certezza farà registrare rincari sul costo della merce trasportata“.
Ma non solo: “Una volta che la situazione si sbloccherà Suez bisognerà capire come ripartirà al programmazione, con un probabile aumento dei noli e problemi con la gestione dei container vuoti“. Una situazione che con buone probabilità porterà a congestionare i porti con gravi conseguenze sulla logistica sia in banchina che sulla strada. “Sarà un’ulteriore mazzata per il settore del trasporto – ci spiega Giuseppe Tagnocchetti di Trasportounito – già ora, in termini di mancanza di lavoro, visto che stanno saltando gli sbarchi, e dopo perchè si teme la congestione dei terminal, con lunghe attese dei nostri trasportatori che quindi lavoreranno in diseconomia e con pesanti disagi“.
Insomma una vera è propria bufera incastonata nel Mediterraneo e che, secondo Bloomberg, costa 9,6 miliardi di dollari al giorno: attraverso il canale di Suez passa il 12% del commercio marittimo mondiale, e l’8% del trasporto petrolifero. Dirette al nostro paese passano merci per un valore di 88 miliardi l’anno, vale a dire 241 milioni al giorno: “La situazione impatterà in modo particolare su quelle aziende che avevano optato per una catena della fornitura corta e non dispongono di un ampio stock di prodotti – sottolinea Nicola Capuzzo
Blocco del canale di Suez: effetto tsunami sul porto di Genova
Resi poveri dal “low cost”
Dai voli aerei alla spesa, dagli acquisti sul web all’arredamento, questa è l’era del low cost: un mondo in cui tutto è alla portata di (quasi) tutti. Ma dietro l’apparenza dell’egalitarismo, la verità è un’altra: il low cost ci rende più poveri, ”perché ogni volta che ci sembra di fare un affare, in realtà stiamo comprando qualcosa di qualità e valore aggiunto inferiore, in una spirale che trascina al ribasso tutta l’economia”, afferma il direttore dell’Istituto Sperimentale di Marketing e del Centro Studi Fleet&Mobility.
Con l’illusione di rendere accessibile tutto a tutti, si produce e distribuisce povertà.
Se il consumatore, ad esempio, vuole acquistare una camicia da 60 euro, pagandone 30, deve accettare che quella camicia contenga una manodopera economica, disponibile solo in Paesi in cui il livello generale dei prezzi è più basso del nostro in termini di stipendio, sicurezza sul lavoro, tutele sindacali ecc.
Gli effetti del low cost sull’economia e sull’occupazione nel medio periodo e su larga scala frenano lo sviluppo e diseducano le persone a percepire la qualità; abbassando il prezzo di beni e servizi per renderli più accessibili, si finisce per determinare poca qualità, minore reddito per le persone e, più in generale, nessuna motivazione/ambizione di accedere a beni e servizi migliori, determinando un appiattimento dei consumi.
Rimettere al centro un rapporto di fiducia tra produttore e destinatario di oggetti e servizi è forse la cosa più urgente da fare. Oltre ad aprire una riflessione sulla globalizzazione, che ha avuto esiti indubbiamente positivi in termini di riduzione della povertà mondiale (quella vera, da 1,2 dollari al giorno pro-capite), ma altrettanto negativi nel mercato del lavoro e forse merita un tagliando, a distanza di vent’anni.
presented by Romano Pisciotti
“La globalizzazione ha solo spostato benessere, sottraendone in alcune aree del pianeta a favore di altre.”
Romano Pisciotti
False speranze
Ancora ho nei polmoni
l’aria del secolo scorso:
il sogno di speranze
di una vita migliore,
intima e privata,
come private sono gioie
passioni e amori
di un’ umanità comune
nella felicità e nella lotta.
Non si affitta l’anima
non si globalizza la vita.
Falsi profeti abbattono confini,
bruciano bandiere e glorie,
disegnando il mondo uguale
per ebeti strabici e connessi,
veloci e più ignoranti.
Reclamo il senso della vita,
la corsa alla Luna,
il senso del viaggio
e la voglia di futuro
fatto di sudate scalate
e non di falsi pianori
in un modo appiattito:
meglio i muri che
i ponti sul vuoto.
di Romano Pisciotti.

MENO CINA, MENO GLOBALIZZAZIONE
Genova – Tan Chong Meng, ceo del gruppo PSA International, prevede che la pandemia di Covid-19 ridurrà l’attività degli operatori terminalistici globali per due – tre anni.
Il ceo di PSA, multinazionale che gestisce anche il porto container di Genova-Pra’, ha detto che “dobbiamo essere preparati ad una recessione”. Un rimbalzo economico? “Può avvenire ma solo con aziende in salute, non è certo il caso adesso”. Tan sottolinea che in questi mesi “c’è stata una folle corsa al commercio online e alle piattaforme di lavoro virtuali, ma questo è riuscito solo a far andare avanti il mondo con una marcia molto bassa”.
La ripresa per il commercio e le attività di PSA a livello globale richiederà anni, anziché mesi.
Il ceo di PSA prevede anche uno spostamento verso la regionalizzazione dei traffici e una minore dipendenza dalla Cina come centro di produzione.
“I produttori potrebbero concentrarsi maggiormente sulla regionalizzazione per abbreviare le catene di approvvigionamento, gestire le scorte in modo più efficace e raggiungere i mercati più rapidamente. Ciò potrebbe accelerare lo spostamento della produzione dalle tradizionali fabbriche globali come la Cina alle zone di produzione regionali”.
Romano Pisciotti: la pandemia ha reso palese la pericolosa concentrazione di approvvigionamenti da fonti quasi esclusive….i comuni cittadini hanno scoperto quanto il mondo dipende dalla produzione cinese.
La de-globalizzazione
Romano Pisciotti
Starbucks
Tutto l’aroma della globalizzazione nell’accordo Nestlé-Starbucks
La compagnia svizzera ha acquisito il diritto di commercializzare i prodotti della catena di Seattle. Ecco come il caffè ha unito i cinque continenti nei secoli
Un’icona americana ormai debordante negli aeroporti e nei centri commerciali, nei parcheggi e agli angoli delle strade, su YouTube, MySpace e sulle pagine di Facebook, in “Shrek 2” e in “Ti presento i miei”, nelle puntate dei Simpson e in quelle di Sex and the City. Eppure è con la svizzera Nestlé che Starbucks ha siglato la grande alleanza. Un’alleanza che vale 7,5 miliardi di dollari e darà a Nestlé il diritto a commercializzare i prodotti del gruppo di Seattle.

La storia del caffè, però, c’entra poco sia con gli Stati Uniti che con la Svizzera. Il suo nome infatti deriva dall’altopiano etiopico di Kaffa, e tuttora l’Etiopia è il quinto produttore mondiale di caffè, con 384.000 tonnellate che nel 2015-16 rappresentavano il 3 per cento della produzione mondiale, il 34 per cento del suo export, il 60 per cento delle sue fonti di valuta e 15 milioni di posti di lavoro. Nero come il petrolio, qualcuno ha accostato il caffè al greggio indicandoli come i due carburanti su cui si basa la velocità del mondo moderno: l’uno per le macchine, l’altro per i cervelli delle persone. Più in generale il caffè è la terza voce più importante nei mercati mondiali delle commodities, appunto dopo petrolio-gas e acciaio. E non solo per l’Etiopia il caffè ha un’importanza economica pari a quella che ha l’“oro nero” per i paesi produttori.
E anche quello di Starbucks, in fondo, è un caffè globalizzante: è di proprietà americana, fa accordi con gli svizzeri, si rifornisce in America Latina e Africa e sfonda in Asia, ma è stato apertamente ispirato al “caffè all’italiana”. Per questo il primo nome della catena fu tra 1985 e 1992 “il Giornale”. Per questo gran parte della sua nomenclatura è in italiano, vero o maccheronico: Espresso, Grande, Venti, Trenta, Latte, Cappuccino, Americano, Breve, Macchiato, Frappuccino, Barista. E per questo ci ha messo tanti anni prima di trovare il modo di proporre la copia alla patria del modello originale: il primo Starbucks in Italia.
Presented by Romano Pisciotti