A bordo del brigantino Italia si svolgono infatti progetti di ricerca, formazione e terapia, educazione delle persone disagiate. Si persegue inoltre lo scopo di formare le persone che operano a contatto con il disagio.
Attraverso lo scambio delle esperienze diverse, anche internazionali, che fa, il brigantino Italia può essere definito come un ambasciatore dell’Italia educante, formativa e solidale nei mari del mondo.
“A me mancherà un piede, ma a lei cuore e cervello” Così Chiara Bordi, 18enne di Tarquinia che parteciperà a Miss Italia e sarà la prima al concorso a presentarsi con una protesi alla gamba, ha risposto a una hater che l’accusava di impietosire gli italiani “solamente perché storpia”.
Il mondo nuovo è fatto di gente che non si arrende…neppure davanti al buon senso: tutti sappiamo che cosa è il concorso “Miss Italia” dunque che senso ha far sfilare una ragazza con la protesi ad una gamba?
Forse, in un mondo di edonisti e narcisisti, il concorso di bellezza inizia al mattino uscendo di casa e finisce nel sudore di una palestra o sotto i ferri di un chirurgo plastico…forse “Miss Italia” dovrebbe cambiare pelle e premiare l’intelligenza, il sacrificio e altre qualità, visto che la bellezza la cerchiamo nella vita quotidiana.
Forse, le papere ( …e paperi) in costume hanno fatto il loro tempo nei concorsi, essendo diventate parte del quotidiano?
Perché non rimettiamo le cose al loro posto? Una vita che premia le qualità ottenute con fatica e sacrificio, mentre i concorsi di bellezza possono premiare l’effimero, senza voler insegnare filosofia o storie di vita a nessuno.
Il Gattopardo non è un romanzo storico, ma è un romanzo che ha un profondo senso della storia, riuscendo a collegare le vicende individuali nella vasta trama della storia dell’800.Il romanzo tratta della transizione fra due epoche storiche ed è attuale perché stiamo vivendo una trasformazione della storia italiana in forme impreviste.
La vicenda del principe Salina può essere letta in molti modi: per capire la transizione dal mondo borbonico all’Unità d’Italia nel 1860, il passaggio dalla Sicilia del fascismo a quella del dopoguerra, dopo il 1943, la transizione dall’Italia nazione, all’Italia continente europeo, dopo il 1992, avendo come sfondo i travagli della globalizzazione.
(Nicola Bottiglieri)
Un paradosso che dice tutto: un libro che entra nell’immaginazione comune per una cosa che non ha detto. A cui tutti, dalla vulgata giornalistica in poi, attribuiscono una morale che nel testo non c’è. La famosa frase: “bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com’è”, da cui nascono i vari “gattoperdesco”, “gattoperdismo”, “gattopardi”, è l’esatto contrario di quanto mostra (e dimostra) il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Il gattopardo non esprime nessuna continuità e nessuna sopravvivenza dei vecchi. Anzi dalla prima all’ultima pagina è il racconto di una decadenza e di una fine di un mondo. La frase famosa viene continuamente smentita: nel libro niente rimane com’è, tutto invece decade e finisce come il cane Bendicò, prima imbalsamato e poi buttato via: “in un mucchietto di polvere livida”
Romano Pisciotti: consiglia la lettura o la rilettura del “Il Gattopardo”
Aggiorno il post ( che lascio invariato sotto a questo aggiornamento) dopo qualche giorno dalla scomparsa di Marchionne. Ho letto sui social tanti messaggi di cordoglio che ricordavano il suo lavoro, ma ho letto anche molti commenti negativi sull’attività di questo manager: esagerati, a mio avviso, in entrambi i sensi.
Sicuramente gli va riconosciuto il merito di aver salvato la FIAT, mentre le critiche riguardano l’ulteriore abbandono dell’Italia da parte del Gruppo. Effettivamente l’impegno sul versante americano è stato notevole e la strategia del Gruppo ha continuato a interessare altri siti produttivi fuori Italia, dunque, l’Italia non è più il paese del core business di FIAT e neppure la sede legale e finanziaria principale. Giusta o sbagliata che possano essere state queste strategie, è ovvio che il Gruppo abbia sfruttato tutte le opportunità offerte dalla globalizzazione, dall’Unione Europea, dalle sovvenzioni dei vari paesi e dalle nuove normative sul lavoro.
Le critiche riguardano maggiormente i contratti di lavoro, ma prescindendo dalle giustificazioni circa la convenienza aziendale, è altrettanto vero che nulla è stato fatto in modo illegale e le critiche andrebbero fatte, (…se tutto ciò è ovviamente a svantaggio delle maestranze) ai governi, ai sindacati e al mondo globalizzato che hanno concesso, avvallato o perorato queste forme di riforme e filosofie post industriali.
Ovviamente le nuove regole del gioco andrebbero viste anche alla luce della coscienza, e della convenienza per il “sistema paese” (il nostro) tanto più che l’Italia ha sempre sostenuto l’azienda FIAT per il principio che “ciò che è buono per FIAT è buono per il paese.”
Personalmente mi hanno infastidito le acclamazioni esagerate nei confronti di questo manager, quasi chiedendo la sua santificazione e ancor più mi preoccupa l’evidenza che, come un tempo si cercavano gli eroi e le narrazioni epiche, troppo spesso solo per cercare l’approvazione popolare in poco edificanti situazioni, oggi si cerchi il manager-eroe per coprire le nefandezze di un mondo che si è globalizzato in modo scomposto, senza regole e privo di idea sociale.
Nonostante i successi nelle vendite, Fiat e Lancia chiuderanno con utili operativi in rosso anche nel 2019 e per quest’anno l’Alfa Romeo lavorerà in perdita.
Negli stabilimenti di casa si continua a fare cassa…integrazione!
FCA Italy, con attività industriali in vari paesi, non partecipa ai successi del Gruppo date le sue perdite: sei miliardi dal 2012.
I “piemontesi” sembrano aver trovato…l’America con i marchi Jeep e RAM, nel pacchetto dell’acquisto di Chrysler.
Mike Manley (“Head of Jeep Brand” dal 2011) si è guadagnato sul campo la nomina ad amministratore delegato di FCA.
L’acquisto in liquidazione della Chrysler, con i suoi marchi storici, è stato il vero affare di Marchionne.
Da Zurigo non arrivano notizie confortanti sull’ex timoniere del Gruppo, al quale va riconosciuto il merito di aver salvato FIAT dal fallimento anche se da tempo, la storica azienda, non è più un “ miracolo italiano”
di Wolfgang Munchau, con un articolo di Giuseppe Chiellino….segnalato da Romano Pisciotti
Molti scandali si sgonfiano. Altri sono destinati ad assumere dimensioni sempre più grandi. Il caso Volkswagen sarà di quest’ultimo tipo. Le sanzioni e le richieste di risarcimenti danni per la manipolazione da parte di VW dei test sulle emissioni potrebbero facilmente superare i 100 miliardi di euro. I costi economici complessivi dovrebbero, poi, rappresentare un multiplo di quell’importo, ben più dell’onere che la Germania avrebbe dovuto sopportare per l’uscita della Grecia dall’Eurozona.
Fatto ancora più rilevante, lo scandalo Volkswagen ha tutte le potenzialità per scardinare il modello economico tedesco. La Germania ha posto un affidamento esagerato sull’industria dell’auto, così come l’industria dell’auto è stata eccessivamente dipendente dalla tecnologia diesel.
Per parte sua, il potere politico di Berlino ha coccolato la grande industria e ha sempre tutelato i suoi interessi all’estero. La “legge Volkswagen”, infatti, protegge la società da una scalata ostile. Ed è stato un ex top manager di VW, Peter Hartz, a scrivere nel decennio passato la legge di riforma del mercato del lavoro.
In compenso, il colosso industriale contribuisce alla stabilità dell’occupazione a livello regionale. E i meccanismi di voto nel consiglio di sorveglianza garantiscono che l’attività produttiva possa essere trasferita al di fuori della Germania solo con il consenso esplicito dei sindacati. In altre parole, ciò non può avvenire.
In termini di gestione del rischio macroeconomico, si tratta di una strategia sciocca – simile all’affidamento eccessivo che il Regno Unito ripone sui servizi finanziari. Queste strategie funzionano bene fino al momento in cui non funzionano più del tutto.
Per valutarne il più ampio impatto economico, è necessario considerare le dimensioni effettive dell’industria. Queste sono molto più grandi di quanto suggeriscano le statistiche ufficiali che non tengono conto delle interdipendenze tra i settori industriali. L’industria dell’auto è senza dubbio il maggiore acquirente unico di beni e servizi da altri settori. Secondo uno studio pubblicato nel 2008 dall’università di Mannheim, l’industria dell’auto valeva nel 2004 il 7,7% del valore aggiunto prodotto in tutta la Germania, la più alta percentuale di qualsiasi Paese al mondo. La Corea del Sud era al secondo posto con il 5 per cento. La maggior parte dei Paesi europei oscillava tra il 2 e il 4 per cento. L’industria dell’auto, come la manifattura tedesca più in generale, da allora ha fatto bene e oggi non mi aspetto che i numeri siano molto diversi.
Ci sono diverse variabili secondo le quali questa situazione può ora svilupparsi. Il miglior risultato per l’industria sarebbe un periodo di aggiustamento graduale. Di solito, però, la vita non riserva questo tipo di sviluppi. Un esito un po’ più probabile potrebbe essere un aggiustamento accelerato.
VW sta mancando l’obiettivo di un boom di vendite sul mercato Usa. Di conseguenza c’è già una perdita. Se iniziassero ad accumularsi, le perdite commerciali potrebbero facilmente superare i costi di qualsiasi risarcimento legale. Per mantenere le quote di mercato, Volkswagen dovrebbe praticare sconti sui prezzi di listino delle auto. Una combinazione di prezzi più bassi e di volumi di vendite inferiori è il presagio di un periodo di profitti in calo.
Un terzo scenario, ancora più drammatico, sarebbe la svendita di attività al fine di pagare i risarcimenti danni e le sanzioni. Questo sbocco potrebbe essere problematico dal momento che il gruppo Volkswagen funziona come un grande network just-in-time. Seat in Spagna e Skoda nella Repubblica Ceca, entrambe controllate VW, condividono la tecnologia del gruppo di Wolfsburg. Inoltre, poiché il sistema politico tedesco entra in convulsione al solo pensiero di una scalata straniera, per non parlare dello spauracchio dell’insolvenza, la mia ipotesi è che Volkswagen verrà mantenuta in vita attraverso una qualche combinazione di aiuti di Stato, nascosti o palesi che siano.
Tutto ciò potrebbe diventare via-via più costoso nel corso degli anni, e politicamente meno popolare. L’autovettura è un prodotto maturo. Gli atteggiamenti ambientali su scala globale si stanno orientando contro la tecnologia diesel e quelli sociali stanno prendendo di mira l’auto in quanto tale.
Vedo un interessante parallelo con la transizione dall’analogico o al digitale alla fine degli anni 70, quando i tedeschi stavano ancora sviluppando e potenziando le centrali telefoniche analogiche. Che funzionarono bene. E funzionarono meglio della generazione precedente, tanto che avevano un seguito di estimatori entusiasti. Solo che i consumatori non le volevano più.
I Paesi che fanno meno affidamento per la produzione su singoli settori reagiscono in modo più vigoroso quando arriva uno shock. Possono permettersi una politica di non interferenza verso settori specifici fintantoché l’economia è flessibile.
In Germania, tuttavia, non c’è una gran flessibilità tra i settori. Gli ingegneri dell’auto non si riqualificheranno professionalmente per lavorare nell’industria biotecnologica o – il cielo non voglia – nel settore dei servizi. La dipendenza tedesca da poche industrie è una delle ragioni perché è sempre stata piuttosto volatile all’estero l’opinione sulla Germania.
Tutto, infatti, era molto diverso solo dieci anni fa quando si parlava della Germania come del grande malato d’Europa. Trascorsi pochi anni, gli stessi osservatori additavano la nazione tedesca come un caso esemplare di economia competitiva. Il testimone del grande malato ora è nelle mani di qualche Paese ad ovest, come la Francia, o a sud, come l’Italia. C’è tanta volatilità in chi osserva quanta ce n’è nell’oggetto che viene osservato. Ma è l’oggetto in sé ad essere chiaramente volatile.
Questo è il motivo per cui lo scandalo VW conta davvero. Ha tutte le potenzialità per innescare una di quelle trasformazioni che potrebbero cambiare la realtà economica. E una volta che la Germania rallenta, lo stesso non potrà non accadere a un’Eurozona che sta oggi ripensando se stessa proprio in termini tedeschi.
munchau@eurointelligence
Copyright Financial Times 2015
(Traduzione di Marco Mariani)
E’ di questi giorni l’ennesimo caso di azienda italiana che passa sotto le insegne di un concorrente estero di maggiori dimensioni. Il nostro Paese è sempre più una sorta di supermarket dove operatori globali hanno l’irripetibile opportunità di comprare prodotti di gran qualità a prezzi scontati.
Italcementi e’ stata solo l’ultima azienda in ordine cronologico a passare sotto il controllo di una compagine straniera, seguendo la sorte già toccata nel recente passato alle varie Loro Piana, WDF, Sorin, Indesit, Gtech, Pirelli, Ansaldo, Parmalat, Wind (2 volte), e chi più ne ha più ne metta.
Da non trascurare è anche il crescente interesse di investitori, in primis mediorientali, anche su società del calibro di Snam, Terna, Enel, Eni, Unicredit, su sui stanno accumulando importanti partecipazioni.
In realtà stiamo assistendo al progressivo e definitivo sfaldamento del cosiddetto capitalismo di relazione, che poggiava essenzialmente sulle entrature nel salotto buono di Mediobanca e al successivo riposizionamento dei protagonisti vecchi e nuovi.
Ormai anche le banche e le compagnie di assicurazioni, che erano asservite alla logica di cui sopra, non sono più in grado di sostituirsi a partner industriali latitanti o sottocapitalizzati, in quanto il loro nuovo management è sempre più focalizzato sul ritorno economico per i propri azionisti. Meglio tardi che mai…
Le aziende che sono state comprate, erano per la maggior parte aziende familiari arrivate alla seconda o alla terza generazione, che hanno preferito vendere la partecipazione, piuttosto che continuare a competere in uno scenario sempre più complesso, ma per questo estremamente stimolante. Ovviamente il fatto di operare in Italia, fornisce un grande alibi per la vendita, considerando tutte le cose che non funzionano.